giovedì 23 maggio 2013

Superare il dubbio: Il Cristianesimo







Ricordo ancora un mio docente di Filosofia. Mi disse che “Gesù è stato il più grande filosofo di tutti i temi. Artefice della ricetta ideale della convivenza pacifica tra i popoli. Un Marx che andava ben oltre la distinzione tra classi contrapposte e belligeranti per natura.”
L’affermazione includeva ,inevitabile, il destino comune ai filosofi, la morte fisica.
Molti ne ho incontrati, da allora, come quel mio vecchio professore. Pronti ad aprire le braccia al pensiero “democratico” del figlio del falegname. Ma con la stessa prontezza di quell’entusiasmo per l’Uomo Gesù , precisavano che l’idea di una resurrezione era cosa fantasiosa, inaccettabile, buona solo per il popolino.
Personalmente credo che la loro personale posizione non sia poi così..disperata.
Il fatto di riconoscere la “filosofia” di Jeoshua Ben Joseph mi pare un buon inizio. Presuppone l’accettazione che la “summa” del suo pensiero, ovvero il Vangelo, non sia una raccolta fittizia di detti e massime, non riferibili ad un soggetto storicamente esistito; ma ,al contrario, qualcosa che abbia un “riferito”, un’origine determinata, con tanto di nome e patronimico.
D’altra parte, a duemila anni di distanza, sarebbe francamente ardito mettere in dubbio la gran massa di dati storiografici inconfutabili (dall’opera di Giuseppe Flavio, ai riferimenti di Tacito per arrivare agli scritti coevi e irridenti della tradizione giudaica che descrivevano l’Uomo come figlio di un soldato romano autore di stupro in danno di una giovane donna nazzarena) che attestano pacificamente l’esistenza in vita dell’uomo poi “crocifisso sotto Ponzio Pilato”.
Il passo che manca –e non è piccolo- è la risurrezione. La sconfitta della morte. In pratica: l’attestazione indiscutibile della divinità.
Arrivare ad accettare la divinità è cosa di fede, ma non solo di fede.
Abbiamo a disposizione qualcosa in più del “semplice” cuore, abbiamo segni che, se esaminati con apertura mentale, possono aiutarci nella conquista della giusta conclusione.
Non dimentichiamo che le prime copie dei Vangeli (quello di Marco, sicuramente) circolavano già quando ancora molti dei discepoli originari erano in vita, e tantissimi dei testimoni delle “gesta” del Figlio del falegname erano capaci di ascoltarle e confutarle, se del caso.
Ebbene, sappiamo che quella prima comunità cristiana crebbe vertiginosamente. Era una comunità che si riuniva con la presenza, spesso, di Maria, di Simon Pietro, di Giacomo, di Giovanni.
Perché così tante persone avrebbero dovuto “fidelizzarsi” attorno a un credo basato essenzialmente sul ritorno alla vita di un morto, proclamandone il ritorno in vita?
A contrastare l’isteria di massa sarebbe bastato poco. Molto poco. La riesumazione del cadavere. La tortura diffusa al fine di ottenere confessioni. Ebbene, niente di tutto questo. Una comunità intera affrontò il martirio votandosi al Risorto. A che prò, se fosse stata una semplice bugia?
A differenza di molti suicidi di massa ,tipici di alcune sette dell’era successiva alla Grande Guerra, i primi cristiani non decisero di farla finita in modo eclatante. Anzi, continuavano a vivere nel loro tessuto sociale cominciando a mettere in pratica il Vangelo. Non disprezzavano la vita. Cercavano solo di viverla meglio, in simbiosi con gli insegnamenti che avevano ricevuto. Nulla di più lontano, dunque , da fenomeni isterici collettivi.
Tirando un po’ le somme di quanto precede, è facile intuire che proprio la testimonianza collettiva, diffusa e in diffusione, è prova forte della veridicità dei Vangeli.
Pietro, così pavido durante il processo a Jeoshua Ben Joseph davanti a Pilato, sarà forte come pietra durante il supplizio che lui stesso subirà a Roma. Come lui Paolo, ed altri innumerevoli.
Il comportamento di questi uomini ci porta a credere che morirono per qualcosa di vero, autentico, indiscutibile. Non certo per un ideale filosofico.
Ma la conquista di verità , anche se autentiche, è giusto venga lasciata al libero arbitrio di ognuno di noi. Siamo liberi di accettare o negare. L’importante è ,però, non prendersi in giro: ci sono prove sufficienti per credere alla divinità del Figlio del falegname. Molte più di quelle che lo vogliono solo filosofo, il cui cadavere è andato perduto.

(Francesco Antonio Maisano,Bologna,2013.)


sabato 18 maggio 2013

Calabria.


Un cuore solo,
bagnato da due arterie di mare salato,
che si incontrano avvolgendoti.
Calabria,
arida e feconda,
montuosa e piana,
allegra e triste.
Affacciata ad oriente ed occidente,
nasci e muori ogni giorno,
in perfetta alternanza.
Pietosa e altera,
speranzosa sempre.
Grido di madre al parto,
silenziosa nell'ultimo sospiro.

(Fam,2013)

domenica 5 maggio 2013

Maria.

Luce fulgida dal cuore spargi,
umilissima creatura,
tra tutte perfetta.
Cuore trafitto
dai peccati del mondo
che lavi con le lacrime sotto la Croce
dove straziata stai di doloroso amore.
Maria,
sovrana dei Cieli,
approdo di ogni speranza.
Madre premurosa,
presente,
sulle labbra di chi muore a questa vita,
nascendo a quella vera.
Maria,
Madre di misericordia.
Aiuto di chi attende,
una carezza di pace.

(Fam)

venerdì 3 maggio 2013

La trave della vergogna.





L’ennesimo suicidio in questi mesi di crisi che attanaglia un po’ tutti.
Stavolta ha scelto di andarsene via, impiccandosi ad una trave del soffitto di casa , un uomo di 62 anni. Un carpentiere licenziato due anni fa, lasciato per strada  senza il sostegno di ammortizzatori sociali.
Solo, col suo fallimento.
La famiglia lo ricorda nei manifesti funebri come vittima di uno Stato assente.
Non era assente la gente del suo paese che lo ha accompagnato nell’ultima dimora terrena. La solidarietà  post mortem  è sempre generosa.
Questo è un suicidio che tocca nel profondo.
Innanzitutto perché un uomo , che si avvicina all’ età nella quale un tempo si iniziava una nuova stagione della vita , deve invece fare i conti con la difficoltà di ritagliarsi spazi di reddito. Fuori dal mercato del lavoro, fuori da ogni circuito di assistenza, solo davanti ad uno  specchio che riflette , giorno dopo giorno, l’immagine delle occasioni perdute, del tempo che è volato, di un successo che non si è conseguito.
La più sola delle solitudini, la più triste delle tristezze.
Vissuta a quell’età non si accompagna più nemmeno a un barlume di speranza, capace di far rigirare la clessidra ancora qualche volta.
Qualcuno dice: che colpa ne ha lo Stato se ti ammazzi?
Mi trovo invariabilmente a rispondere che lo Stato siamo noi, e chi si ammazza è perché resta solo, quindi “anche” senza di noi.
Questi sono anni in cui l’esigenza primaria non è il benessere del consociato, ma l’ordine di cassa, i conti che tornano, il giusto bilanciamento tra spese e introiti. Insomma un fatto di ragioneria.
Come se la vita scorresse su una pagina  a quadretti.
Credo sia arrivato il tempo di ripensare alle scelte di macroeconomia per tutti quei Paesi che non ce la fanno più a seguire l’esempio virtuoso (e quanto casuale?) di Germania e altri pochi. Se lo sforzo di “stare dentro” deve corrispondere allo strozzamento della capacità reddituale del singolo allora forse è il momento di cambiare. O di far cambiare gli altri esponendo esigenze ultimative.
Avere i conti in regola e staccare cadaveri dai soffitti non è comunque un successo del quale andare fieri. Io, almeno, me ne vergognerei senza conforto alcuno.


(fam,Bologna 3 maggio 2013)