giovedì 15 novembre 2012

La prova di Cirene.


La prova di Cirene. (fam)


Mi è capitato recentemente di sentire una persona che conosco, fare la seguente affermazione:
"Gesù è sicuramente un ideale, ma non si possono non avere dubbi sulla sua reale esistenza, sul suo essere stato (anche) una persona fisica”.
Tesi peraltro abbastanza diffusa che porterebbe  a relegare nel campo della immaterialità qualcuno che, invece, ha vissuto un’esistenza umana, ha calpestato la terra, ha mangiato i frutti della terra, si è beato del sole le, si è riparato dalla pioggia.
Ho risposto a questo amico che sbagliava.
E credo di averlo convinto. Come? Non è stato difficile.


I Vangeli non sono opere di fantasia.
Sono stati scritti in un’ epoca nella quale erano ancora in vita persone che, solo volendo, avrebbero potuto smentirli. E con la forza persuasiva dell’evidenza!
Non abbiamo prova di alcuno scritto che metta in dubbio che un uomo di nome Yeoshua Ben Joseph non sia stato effettivamente mandato a morte dal Governatore  romano di Giudea, Ponzio Pilato.
Anche se volessimo prescindere dal racconto (scarno, invero) che ce ne fa Giuseppe Flavio nelle sue “Antichità Giudaiche” ci troveremmo a dover fare i conti con le tracce che la storia non disperde mai. Tracce che ,una volta venute ala luce, testimoniano in maniera incontrovertibile ciò che è accaduto.
Discorrendo col mio amico dubbioso, l’ho invitato a riflettere su una tomba. Sì, proprio una tomba.
Quella trovata nel 1941, nella valle del Cedron a Gerusalemme, dal Prof. Eleazer Sukenik dell’Università Ebraica di  Gerusalemme.
All’interno della tomba vi erano 13 urne funerarie ed una lampada ad olio. La datazione fatta col carbonio 14 ha rivelato senza alcuna ombra di dubbio che trattasi di urne funerarie del I° secolo dopo Cristo; quindi il periodo nel quale Gesù visse la gran parte dei suoi 36 anni (potendo datare la sua morte nell’anno 30 d.C).
Ciò che ci interessa maggiormente sono alcune delle iscrizioni funerarie.
“Alessandro figlio di Simone” ed  “Alessandro di Cirene”.
Come detto, questi sono fatti certi. Non possiamo minimamente metterli in dubbio. C’è la tomba, ci sono le urne, ci sono le scritte e la datazione.

Procediamo:
nel Vangelo di Marco (15,21)  leggiamo:

costrinsero, un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e Rufo, a portare la croce….“.

Al contrario di Simone, il nome Alessandro non era molto diffuso in Giudea nel I° secolo d.C. Se ne contano pochissimi in tutta la regione (per l’esattezza solo 31  volte emerge in tutto il materiale scritto ritrovato).
Quante possibilità che questo Alessandro figlio di Simone il Cireneo sia una persona diversa da quella citata da Marco? Scarse davvero, forse infinitesimali.
Ora esaminiamo la circostanza da un punto di vista sinottico:
Il vangelo di Marco può essere ormai tranquillamente datato attorno all’anno 58/60 d.C. quindi entro un range di tempo inferiore sicuramente ai 35 anni dalla morte di Yeoshua ben Joseph.
Scrivere qualcosa nell’attualità, ce lo insegna l’esperienza, significa esporsi alla smentita.
Se voglio diffondere una bufala mi guarderò bene da circostanziare la bugia che dico. Il rischio di essere smentito cresce quanto crescono i particolari, i dettagli.
Immaginiamo allora che interesse avrebbe avuto l’evangelista Marco ad inserire un particolare che sarebbe stato agevolmente smentito da Alessandro stesso e, se non da lui, dai suoi stessi parenti?
Una bugia conclamata avrebbe inficiato la credibilità di tutto il racconto. Tutto il vangelo sarebbe stato “bollato” come opera falsa.
Tutto ciò non accadde.
Abbiamo pertanto la prova che in quell’aprile dell’anno 30, Yehoshua ben Joseph fu aiutato a portare la croce (o il solo patibulum, la trave orizzontale da fissare poi al palo) dal padre di Alessandro (e di Rufo, altro figlio di Simone di Cirene), Simone di Cirene appunto.
E’ la prova dell’esecuzione di una condanna a morte. La condanna a morte di un uomo, Yeoshua ben Joseph.
Che sia poi risorto perché figlio di Dio, appartiene alla sfera del dogma, della Fede.
E la Fede prescinde da ogni possibile traccia che non sia nel cuore di ognuno di noi. Com’è giusto che sia.



 Francesco Antonio Maisano
 Bologna

Trattatello di gatti e giudici....


Trattatello di gatti e giudici…. (fam)


Un avvocato non finisce mai di imparare! Ecco perché siamo (dobbiamo essere…) legati ai nostri Maestri. Ci insegnano sempre, anche quando iniziamo a volare con le nostre ali.
Man mano che andiamo avanti nella bellissima avventura che è la “conquista della convinzione altrui” scopriamo quanto sia vero l’assioma: “il processo è il giudice”.
La Giustizia umana è “fatta” da esseri umani, con le loro debolezze, i tic, le paturnie, i modi di porsi e di recepire.
La “conquista del consenso” non può non partire dalla conoscenza di chi si vuole conquistare.
Creare da subito “antipatia” non è certo una brillante strategia nella lotta mirabile verso l’assertività.
Come nel mondo animale, l’imprinting giudiziario andrebbe studiato. Forse nel solitario meditare molti di noi lo hanno fatto e lo fanno. Alcuni credono che sia un’arte. Ed io tra loro.
Per questo mi ispirerò all’amico gatto. Sì, quell’esserino peloso che conosciamo sempre assai poco! Molto meno di quanto dovremmo. Conoscendo il gatto possiamo conoscere il lato nascosto dell’essere umano. Il gatto è la nostra zona d’ombra. Conquistala e avrai le chiavi dell’intimità altrui.
Il Giudice va trattato come un gatto!
Sono arrivato a questa conclusione dopo averne visti tanti e di varie tipologie. Nella diversità di pelo e lignaggio tutti, però, avevano in comune un aspetto: la diffidenza verso l’avvocato.
Il Giudice diffida di te esattamente come il gatto diffida della tua prima carezza.
Se sbagli verso, intensità, momento, sei spacciato. Hai perso non solo il consenso ma lo stesso rapporto. Una  rottura insanabile e definitiva. Dolorosissima.
Ecco perché abbiamo poco tempo per iniziare un approccio che, se felice, potrà aiutarci nel prosieguo del cammino, se sbagliato ci perderà definitivamente. Con risultati amari.
Il gatto va accarezzato per il suo verso. Regola aurea. Fatto notorio.
La carezza non può partire sgradita o sorprendente! Se il gatto è sorpreso scappa, quando non graffia!
Così il giudice. L’ imprinting pertanto non sarà mai fisico. Non inizialmente. Sarà invece simbiotico. Assertivo. Emozionale, ma a distanza.
Si comincia col valutare il “bersaglio” e si cerca, per quanto possibile, di non creare discrasie. L’ osservazione iniziale è tutto. Il passo successivo sarà la riproposizione  speculare del “quid” altrui. Quale possa essere il “quid” è poi l’arte stessa dell’approccio. Ovviamente non ve la svelerò. Sarebbe inutile perché legata a mille variabili che solo un’acutezza allenata potrà cogliere.
Conquistato il primo stadio dell’ imprinting si procederà con assoluta levità verso il secondo: la riproposizione. Fare proprio quel “quid” cercando di non sublimarlo. Anzi, possibilmente restando nel sottotraccia. Understatement, direbbe un navigato barrister. Proporlo all’autore originario con la soavità che non lasci pensare allo scimmiottamento. Se ci si riesce siete a metà dell’opera.
Una volta conquistata l’empatia proseguiremo verso il raggiungimento della meta intermedia : la prima carezza.
La prima carezza è come il primo bacio, sbagli momento, modalità, caratura e l’amore è finito senza nemmeno sbocciare. Non potrà mai essere nemmeno ricordo tanto sarà grande il peso del fallimento. Frustrante come una porta sbattuta in faccia, come uno sguardo nemmeno ricambiato. Il gelo di un inverno perenne senza speranza di primavera.
La prima carezza non la farete mai voi, non nell’intenzione, almeno! Vi sarà richiesta. Voi la farete esattamente quando sarà attesa. Il tempismo e l’intensità sono coniugati indissolubilmente. Il giusto momento, la giusta carezza. Il primo dovrete saperlo cogliere, la seconda dovrete saperla fare.
La prima carezza…ah quanto impegnativo quel tocco atteso per essere giudicato, analizzato spietatamente e solo dopo, forse, finalmente gradito!
Mai contropelo, ovvio, e lo sappiamo già!
Mai intrusivo che dia l’idea del possesso vantato.
Mai sfuggente che denoti ritualità.
La carezza deve comunicare lealtà, verità, condivisione .
Anzi, ancor di più: Purezza d’intenti!
Il successo della prima carezza abbasserà la guardia iniziale di chi ora state accarezzando. E’ fatta! 
Siete entrati oltre le originarie difese, i cavalli di frisia sono vinti, non c’è altro che da proseguire nell’alternarsi tra invito e dono. Il resto della storia, tocca a voi scriverla…



giovedì 8 novembre 2012

Dedicato a mio Padre.

Il Prefetto di Bologna, S.E. dott. Tranfaglia, mi ha consegnato il 7 novembre 2012 le Insegne di Cavaliere della Repubblica. E' un onore e un Privilegio che voglio dedicare per intero ad un Cavaliere Vero. Un Uomo che ha servito il Suo Paese durante la IIa Guerra Mondiale e,dopo la Pace, la Sua Famiglia. Un Uomo che mi ha insegnato le Cose Giuste che conosco, un Uomo a volte così difficile da imitare perchè aveva innata in sè un'attitudine profonda alla Giustizia ed all' Umanità più autentica e preziosa. A Carmelo Maisano,a mio Padre!













Mio Padre ed il piccolo cavaliere...