venerdì 30 marzo 2012

Il rispetto del dolore.

Ho molto apprezzato che la Stampa ed i media non abbiano divulgato le generalità complete dell’artigiano bolognese che si è dato fuoco davanti alla sede di Equitalia a Bologna. Tra l’altro l’attualità di un trattamento sanitario in corso proibisce l’invasività di notizie e impone il rispetto del riserbo.Eppure stamane, nella prima edizione mattutina del Tg5 ho visto e sentito tal Befera,Capo dell’Agenzia delle Entrate, fare gli auguri all’artigiano facendone il cognome.

Poco mi importa se sia stata una svista. Certe sviste non sono ammissibili quando si rivestono incarichi di così alta rappresentanza e responsabilità. Il rispetto del dolore deve partire dall’alto. E non ci sono sviste che tengano. Solo errori, a volte del tutto inescusabili.

sabato 17 marzo 2012

Il "ritorno" della Uno Bianca e quello di Spinosa.



Nel 1993 ero un giovane avvocato penalista, arrivato a Bologna da 7 anni. A me si affidò un altrettanto giovane cliente accusato di un delitto tra i più eclatanti della storia giudiziaria bolognese e non solo: la strage di tre giovanisismi,eroici,Carabinieri nel quartiere Pilastro di Bologna. Era la sera del 4 gennaio 1991, la periferia di Bologna avvolta da una nebbia fittissima. Tre giovani eroiche vite spezzate dalla micidiale azione di fuoco della Banda della Uno Bianca. Solo anni dopo sapremo che quel delitto fu esclusiva opera dei Fratelli Savi,ma nel 1993 a me giovanissimo penalista, fu affidato il destino di un innocente, accusato di quell'omicidio che altri avevano commesso (ndr. I fratelli Savi furono scoperti nel novembre del 1994) . Fu un processo terribile. Un anno e mezzo di udienze davanti alla Corte d'Assise di Bologna. Il mio avversario si chiamava Giovanni Spinosa, tenace pubblico ministero della Procura della Repubblica di Bologna. Un "mastino" fermamente convinto della colpevolezza del mio assistito. Ci siamo confrontati duramente per oltre un anno e mezzo in aula, senza risparmiarci il minimo colpo. Combattendo in udienza, strenuamente, e non certo nei talk show come usa adesso. Gli do atto che è stato un avversario ostico ma alla fine vinse la verità! Eppure non fu un processo ad armi pari. Non poteva esserlo, difficilmente anche oggi lo è. Il Pubblico Ministero ha dalla sua le Forze dell'ordine, per lui nessun mezzo è rispamiato. Le armi della difesa, specie vent'anni fa, erano solo l'ardore e il coraggio. La mia vita professionale e privata fu condizionata pesantemente,completamente da quel processo. Un impegno difensivo come quello ti piglia dentro, ti consuma. Dopo che l'innocenza del mio assisitito fu definitivamente riconosciuta si ribaltarono un pò i ruoli. Io divenni difensore di parte civile nel successivo processo contro la Banda Savi. Difendevo alcune delle loro vittime. Contribuì alla loro condanna all'ergastolo. Ebbi l'onore di vedere confermate tutte quante le mie tesi. Quelle che avevo fatto sin dall'inizio davanti all'altra Corte d'Assise. Quelle per le quali lottai duramente contro l'imponente macchina da guerra investigativa sulla quale Spinosa e il suo Ufficio potevano contare. Sono passati quasi vent'anni d'allora e di quel Pm non avevo più sentito parlare. Forse la sconfitta bruciante lo aveva portato altrove, a fare il giudice.
Sia ben chiaro, non discuto la sua preparazione e la sua tenacia. Come avversario in un'aula difficilmente troverò un altro Giovanni Spinosa. Ma egli era innamorato della sua tesi, e la sua tesi aveva contribuito a portare in carcere degli innocenti. E ciò è terribile,sempre! Ne avevo perso le tracce,ho scritto. Fino all' altro giorno. E' ritornato con la pubblicazione di un libro "L'Italia della Uno Bianca" dove riattualizza le sue tesi che possono essere così riassunte: "Dietro i Savi c'era un connubbio non scoperto con altre entità rimaste non svelate. Si parla di criminalità organizzata, dimenticando che la logica stessa presuppone che la perdurata inviolabilità dei Savi risiedeva proprio nella loro impermeabilità all'esterno. Essi agivano contingentati,blindati. E ciò gli assicurò l'impunità per lungo tempo. In quel libro ho riletto le tesi sulle prove balistiche che osteggiai nella mia arringa in corte d'Assise a Bologna. Spinosa partiva dal concetto che ogni pedina doveva avere un posto indefettibile sullo scacchiere. Io gli replicavo che l'azione delittuosa, quella azione delittuosa, non poteva essere guardata in vitro perchè troppe erano le incognite; la fittissima nebbia aveva giocato un ruolo, l'eclatante drammaticità dell'evento aveva fortemente condizionato le testimonianze. Lui si servì anche di qualche pentito la cui inaffidabilità emergerà chiara nei successivi processi. Una massa di elementi eterogenei che si sublimavano sostanzialmente nella deposizione di una ragazza bolognese e di altri pentiti dei quali riusci,lottando, ad attenere anni dopo il rinvio a giudizio per calunnia. Ma quel processo rimase in un cassetto e il reato si prescrisse. Su una cosa concordo con Spinosa: quel falsi pentiti, quei testimoni menzogneri, avrebbero potuto dire se e chi li aveva imbeccati. Se e chi li aveva spinti a mentire,perchè mentirono su questo nessun dubbio è consentito! Ed invece non fu possibile processarli! Prescrizione del reato! Ancora oggi ritengo questa omissione una grave lesione del Dovere di Verità,una pagina buia della Giustizia in Italia!
Nel libro di Spinosa è clamorosamente assente una verità drammatica: innocenti passarono anni e anni di carcere preventivo prima che l'avvento dei fratelli Savi facesse Giustizia anche di quel terribile errore. E' un caso che non si parli mai, nel libro, di quelle vite spezzate? Non saprei. Ma è un fatto!
L'allora pubblico ministero,oggi giudice, ripercorre la dinamica dell'eccidio del Pilastro. Una dinamica che smontai 18 anni fa in aula e sulla quale non intendo tornare,non adesso, non qui. Persino la Cassazione ha consacrato con sentenza definitiva la verità,alternativa al suo errore. Sono solo artifici dialettici che nascondono una verità più "banale" : innocenti stavano per essere condannati all'ergastolo. E per questa mostruosità sventata in extremis nessuno ha pagato. Nessuno. E quando l'ingiustizia si afferma anche per un breve tratto della vita, la Verità si piega alla forza. E non c'è Diritto. C'è solo miseria!

(In alto, tratto da La Repubblica del 2 giugno 1995, aspettando la sentenza del primo processo per la Strage. A sinistra io, a destra Giovanni Spinosa)

sabato 10 marzo 2012

La paramafiosità nel Concorso esterno associativo.

La paramafiosità nel Concorso esterno associativo.

“Maisano, ho pensato che potrebbe fare la sua tesi sull’ associazione per delinquere. Che ne dice?”

Qualche momento di smarrimento, giusto per domandarmi mentalmente se Giorgio “il Rosso” mi affidava quel compito alla luce dei miei natali calabri o anche dei miei studi in Sicilia prima dell’approdo nell’ateneo pavese dove Giorgio Marinucci, il Rosso appunto, aveva preso la cattedra di Pietro Nuvolone passato in quel di Milano. Insomma quella tesi era buona per un meridionale, dovette forse pensare il genio comunista del Diritto penale italiano. E così iniziai.

L’associazione per delinquere era allora una figura quasi alchemica nel diritto penale di parte speciale. Rinviava a qualche processo storico contro una mafia che ancora non era Cosa Nostra, lo sarebbe diventata con il 416 bis, ma anni dopo. La mafia dei pascoli, vecchio retaggio di una Sicilia normanna dei latifondi. La mafia delle scorrerie in armi, aggravante specifica della quale ancora oggi sono forse l’unica dottrina citata nei manuali. Anche perché l’unica dall’86 in avanti! Chi altri mai –se non io- avrebbe avuto voglia di trattarne?

Insomma, Giorgio il Rosso mi dice di “cercare,esaminare,proporre”. All’epoca la dottrina era solo Vincenzo Patalano e qualche scritto di Gaetano Insolera che poi diverrà mio amico a Bologna. Quindi ci misi molto del mio in quella tesi che sapeva di borbonico, barbaresco, antropologico.

Una cosa mi era chiara: un delitto necessariamente plurisoggettivo, organizzato anche rudimentalmente e con un programma delinquenziale generico per sfuggire alla insidiosa collateralità del concorso di persone nel reato. Era proprio quel pactum sceleris a tipizzarlo, blindarlo, connotarlo.

Un salto decennale e da quell’epoca di pionierismo ci si è catapultati nell’emergenza della lotta a Cosa Nostra.

La nuova figura dell’associazione di stampo mafioso (un “bis” posposto al 416 perché non si poteva fare diversamente) mostrò dei limiti nell’accertamento giudiziario di responsabilità collaterali alla struttura associativa vera e propria.

Insomma che fare verso chi non era intraneo alla “cosca mafiosa” eppure col suo agire ne agevolava le gesta? Quel “terzo livello” non “punciutu” ma collaterale alla mafia come poteva essere punito nonostante l’assenza dell’introneità al sodalizio? E come differenziarlo dalla contiguità dell’area favoreggiatrice (personale e reale) che già era recettiva del post-factum, piuttosto che dal concorso ex art. 110 nei singoli reati fine in itinere?? No, ci voleva qualcosa che punisse alla stregua del partecipe (se non del promotore o capo..) chi non partecipava per definizione,ma aiutava i partecipi,li rafforzava nell’itinerario delittuoso.

Ammetto di non aver mai compreso la plausibile fondatezza di un tale guazzabuglio nomofilachico che per quanto “scritto bene” (Sez.Un.33748/2005;Mannino) -perché Canzio è un gigante del bello scrivere! – è volpino nell’aggirare l’idem sentire associativo a favore di una figura ibrida che rimane consegnata all’argomentare più che al “comprendere” tipico della prescrizione penale.

A me che mi ero abbeverato agli insegnamenti di un purista,e per di più comunista, come Marinucci, tutto ciò ha sempre “saputo di posticcio”, di “para”, di strampalato absit iniuria.

O si è associati o non si è. E se non si è si sarà favoreggiatori nel post-delictum o concorrenti nei (in qualcuno dei..) delitti-fine. Altro non ci è dato teorizzare a meno di evidenti forzature del principio di tassatività e pre-conoscibilità dell’ipotesi delittuosa normata e da sanzionare; con buona pace della Costituzione Repubblicana.

(fam)

venerdì 9 marzo 2012

Di Gesù di Nazareth che fu (anche) insigne penalista.

L’evangelista Giovanni, che fu testimone oculare diretto degli avvenimenti storici che caratterizzarono la vita terrena di Gesù di Nazareth, ci tramanda la mirabile difesa operata dal suo Maestro in occasione di un pubblico giudizio a carico di una donna non meglio identificata.

Il capitolo 8 del suo Vangelo, versetti 1-11, è interamente dedicato all’arringa difensiva che Gesù pronunciò in difesa di una donna gerosolimitana accusata di adulterio.

Resta del tutto incerta l’esatta identità della donna, ed ogni tentativo postumo di identificarla con Maria di Magdala è priva di fondamenti certi.

La donna è tratta davanti al Tempio per essere immediatamente lapidata, attesa la disposizione mosaica che tale pena prevedeva nel caso di adulterio conclamato.

La presenza nel luogo di Gesù spinge gli uomini di legge (farisei e scribi) ad interpellarlo circa l’esattezza di quanto si stanno apprestando a fare.

Gesù di Nazareth, viene ricordato da Giovanni mentre è intento a “scrivere col dito sulla sabbia”.

Nelle epoche successive ci si è letteralmente accaniti ,senza alcun risultato plausibile, nel tentativo di comprendere cosa mai avesse potuto tracciare, col dito sulla sabbia, il giovane nazzareno.

La sabbia, destinata a cancellare ciò che viene scritto su essa, non potè certo tramandarci alcunché al riguardo, e nemmeno ,del resto, apparire leggibile per chi non fosse accanto allo scrittore. Peraltro lo stesso Gesù, subito dopo avere scritto sulla sabbia cancellava ogni cosa con la mano.

Sappiamo dunque che egli..scriveva. E cancellava subito dopo.

Prendeva appunti? Indicava con quel gesto un qualcosa che facesse immaginare ciò che pensava?

Inutile dilungarsi. La cancellazione è ciò che rimase, degli scritto nulla sapremo mai.

Sappiamo però che un primo tentativo operato dagli scribi di ottenere da lui un parere su cosa fosse giusto fare alla donna, rimase senza risposta.

Gesù si fa attendere. Forse che aveva bisogno di ponderare il suo intervento? O forse che quella pausa,in realtà, non fosse uno strumento per concentrare maggiormente su di sé l’attenzione degli astanti? Un po’ come quando il penalista,prima di iniziare la sua perorazione finale, si affida a gesti muti che catturano definitivamente l’attenzione del giudice. Si tocca la toga,l’aggiusta, liscia un pagina del codice. Insomma opera in un magico momento di preambolo ciò che è “l’affermazione del suo ruolo”.

E difatti il secondo invito non rimase senza risposta.

Smesso di scrivere sulla sabbia, Gesù,alla domanda su quale debba essere il destino della donna, pronuncia la sua arringa difensiva. La scelta ricade su un intervento di tipo rapido e risolutivo:

“Chi di voi è senza peccato,scagli per primo la pietra su di lei!”

Nessuno scagliò alcunché, secondo quanto scrive Giovanni e la donna fu lasciata libera di andare.

Gesù aveva scelto di ricorrere ad un’arringa non argomentativa, ma immediatamente risolutiva. Aveva personalizzato il capo d’imputazione rivolgendone il contenuto,esteso, a tutti gli astanti.

Chi è incolpevole del “tutto”,inizi ad eseguire la punizione del ritenuto colpevole per “l’uno”.

Sicuramente la scelta difensiva aveva dei rischi, non c’è dubbio alcuno! Scegliere la sfida secca piuttosto che puntare (ad esempio) sul dubbio richiedeva sangue freddo e una dose massiccia di affidamento sull’esattezza della scelta.

Che si rivelò vincente. Anzi, trionfale.

Ognuno degli astanti fu spinto ad una fulminea e “scabrosa” introspezione ad includendum. Il risultato ottenuto dal difensore fu che nessuno potè dirsi sostanzialmente diverso da chi intendeva punire. La sovrapposizione totale del giudice col giudicato fu un capolavoro assoluto di eloquenza.

Un mirabile esempio di come la difesa possa essere irresistibile se va direttamente al cuore del problema. Senza neanche lasciare all’avversario lo spazio di una replica.

martedì 6 marzo 2012

Riportiamo a casa i nostri "Marò"!

Ci sarà tempo e modo per affrontare con la dovuta ponderazione ogni aspetto di questa intricata vicenda.

Ci si dovrà interrogare,sicuramente, su chi abbia dato l’ordine di entrare in acque interne indiane dopo che le condotte imputate ai nostri soldati si erano realizzate interamente in acque internazionali.

Non v’è dubbio che con il comportamento scellerato di chi ha dato l’ordine di entrare in acque territoriali indiane, originando così l’arresto dei nostri connazionali, ci si è imbucati in modo dilettantesco nella trappola prevista dall’art.27 nr.5 della Convenzione ONU di Montego Bay, ratificata dall’Italia con legge nr. 689 del 1994. Tale articolo dispone che la giurisdizione penale a bordo di nave straniera può essere esercitata dallo stato costiero, per reati commessi prima dell’ingresso della nave nel mare territoriale, solo a condizione che la stessa nave entri poi in acque interne (dello stato costiero.).

L’ingresso della nostra nave nelle acque interne indiane è stata pertanto una scelta scriteriata della quale bisognerà chiedere conto e ragione a chi l’ha imposta!

Purtroppo,come detto, questa è una convenzione internazionale alla quale hanno aderito sia l’Italia che l’India e rappresenta pertanto un punto a nostro sfavore.

Resta il principio di diritto interno italiano (Codice della Navigazione RD nr. 327del 1942) che prevede all’art. 4 il ben noto principio secondo il quale: “Le navi italiane in alto mare e gli aeroplani italiani in luogo o spazio non soggetto alla sovranità di alcuno Stato sono considerati come territorio italiano”.

E’ di tutta evidenza che non possiamo imporre il Codice della Navigazione italiano all’India ma possiamo sicuramente pretendere che in sede internazionale si apra un dibattito urgente sulla detenzione di due militari che “in suolo italiano” hanno esercitato la difesa (sia pure putativa..) su parti del territorio statuale in acque internazionali.

Insomma, molto più che il Diritto deve essere ora la Diplomazia e la Politica a raggiungere il risultato improcrastinabile: la restituzione dei Nostri Ragazzi alle proprie famiglie e al proprio Paese.

lunedì 5 marzo 2012

Mistero.

Pioggia cade,
feroce bussa su questa casa
dove riposi immobile
senza esserci.
Altrove da qui,
sfuggi,
nel mistero.
Almeno credo.
Il tuo non esserci e' reale,
e la pioggia si ostina sulla tua casa di marmo,
dove riposa l'immagine
che non ha più sguardo,
ne' tenerezza,
ne' vita.
Lontana e' l'eco del movimento,
il sorriso che dipingeva la bocca,
la parola che confortava.
Ed e' mistero inaccessibile,
credo.
Anche se non c'è tenerezza,
ne' vita visibile,
sotto la pioggia.

venerdì 2 marzo 2012

La Preghiera dell'Avvocato.


Sua Eminenza il Cardinal Caffarra ha dato il Suo Placet alla la Preghiera dell'Avvocato da me composta. Può pertanto essere recitata.

giovedì 1 marzo 2012

Il mio amico Lucio.

Conobbi Lucio Dalla quando arrivai a Bologna,giovane procuratore legale nel 1985.

All’epoca anche lui amava i sigari Avana, una passione comune che me lo fece conoscere. Preferiva i Bolivar, un sigaro forte come la sua Musica.

Di tanto in tanto ci vedevamo lungo la D’Azeglio pedonale e scambiavamo quattro chiacchiere.

Lo ritrovavo spesso alle Eolie, d’estate, Amava quelle Isole e la cucina di un’amica comune, la Neva al Barbablù.

Ci incrociavamo spessissimo a Messa la Domenica. O alla Chiesa dei Celestini o in San Petronio a mezzogiorno.

Lucio preferiva starsene appartato vicino ad un altare secondario, nascosto alle gente. Aveva il pudore di non disturbare e non voleva essere strumento di distrazione per gli altri.

Prendeva la Comunione per primo e sgattaiolava via. Spesso lo vedevo inginocchiato dietro la grata attigua alla sacrestia, ai Celestini. Concentrato. Quasi dolente.

Lucio aveva grande spiritualità e un Amore profondo per la liturgia e l’essenza del Cristianesimo.

So già dove può essere adesso che scrivo. E non è una vaga idea,la mia.

Ciao Lucio, ti splenda la Luce del Signore!