giovedì 31 maggio 2012

Di Brindisi e della Colonna Infame.




Chissà quanti di noi,avvocati penalisti,hanno visto scoccare la freccia dell’innamoramento per la Toga con la lettura della manzoniana “Storia della Colonna Infame”? Io di sicuro.
Vi si narra di come una testimonianza falsa possa portare,accompagnata dall’uso della tortura, alla condanna dell’innocente; degli innocenti. In quella terribile storia erano appunto due: Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora. Anno “di grazia” 1630. Chi li condannò ritenne equo anche iscriverne il ricordo in una colonna di cemento. A memoria del loro “delitto”.
Da quel tempo tante altre condanne di infelici si sono susseguite, si susseguiranno, perché se la giustizia umana è un fatto di uomini, è evidente che essa non possa sottrarsi al condizionamento soggettivo che in essa vi apportiamo direttamente o indirettamente,tutti quanti.
Ma tralasciando il richiamo letterario veniamo al punto:
A Brindisi per i noti terribili di fatti di qualche settimana fa, gli inquirenti ritengono di dover approfondire la posizione di un elettrotecnico che, curiosamente come l’uomo che appare immortalato in un video girato da una telecamera di sorveglianza, ostenta una debilitazione fisica alla mano, tanto da tenerla costantemente in tasca.
Vive nei pressi del “locus commissi delicti” e ciò è sufficiente per iniziare a scandagliare la sua posizione.
Si dirà: per così poco? Può essere obiettivamente poco, può essere però un input da approfondire. Gli inquirenti questo devono fare.
E’ evidente,però, che la dimensione dell’indiziarietà del caso concreto mal si conciliava con le procedure seguite.
A seguito dell’accompagnamento in questura dell’uomo qualcuno,dal di dentro, ne faceva filtrare  nome e cognome. A quel punto per i tanti giornalisti era sicuramente un gioco da ragazzi pervenire ad una più compiuta identificazione. Ed in effetti ciò è avvenuto in un breve volger di minuti.
Il resto è storia che tutti conosciamo. Un giornalista, mediaticamente famoso, attraverso un social network (Twitter) scrive nome e cognome dell’uomo e addirittura si reca a fotografare la casa in cui abita e la rende pubblica attraverso un cinguettio” (tweet,appunto) .
Questo giornalista ha fatto informazione o ha creato le condizioni per la distruzione di una vita?
Alcuni potrebbero dire: il giornalista deve pubblicare quanto apprende! Il problema sta a monte: gli inquirenti non dovevano operare la “soffiata”.
Per evitare  che il ragionamento diventi il classico “gatto che si morde la coda” precisiamo:
Gli inquirenti non dovevano “soffiare” nulla. Non è nelle loro facoltà, la legge non solo non lo permette ma lo vieta. In quella fase del tutto preliminare ancora di più.
Il giornalista avrebbe dovuto sentore il dovere morale di non fare il nome dell’accompagnato (l’accompagnamento in caserma è situazione talmente generica che può essere compatibile anche con l’esigenza di ascoltare a caldo una persona “semplicemente” informata sui fatti, o che lo possa essere. E questo il giornalista non doveva ignorarlo. Va da se che mettersi addirittura a fotografare il portone di casa di  quella persona che in quei momenti staziona all’interno della Questura è un atto grave. Anzi, irresponsabile! Pare che l’innocente  di Brindisi abbia rischiato il linciaggio fisico. Di sicuro ha subito quello morale. Sono danni permanenti che segnano una vita. Danni non quantificabili. Danni che,purtroppo, anche stavolta nessuno risarcirà. Danni  come quella triste Colonna Infame che, compiaciuta, segnalava che “giustizia era stata fatta”. Quando era invece solo la prova, scritta sul cemento, dell’ennesimo errore giudiziario.

(Francesco Antonio Maisano,Bologna)

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