Tra i primi interventi della neo
ministra molti di noi ricordano il vero e proprio atto di fede nel “braccialetto
elettronico”. E di atto di fede assoluta bisogna parlare, visto che si tratta
di uno degli utensili meno conosciuti in assoluto da addetti ai lavori e non.
Immagino che il ricorso della
Ministra al congegno fosse volto a sottolineare un aspetto meno prosaico e più
sostanziale: l’esigenza di decarcerizzare, per quanto possibile, in ossequio al
principio costituzionale di cui al-
l’ art. 27 e, nell’immediato, come rimedio al sovraffollamento inframurario
ormai insostenibile.
Diciamo subito che se vi era una
petizione di principio nell’intervento della Ministra questo era (ed è!)
nobile, opportuno ed anzi assolutamente indifferibile.
Eppure la Ministra,con un
semplice ricorso al database ministeriale, avrebbe potuto (e può!) constatare
come a fronte del suo condivisibile zelo programmatico esistano soluzioni concrete a portata di mano. Prendiamo
ad esempio i condannati a pena definitiva non superiore (anche quale residuo) ai tre anni che si trovino in regime
di arresti domiciliari per reati di c.d. “seconda fascia” (art. 4 bis O.P) al
momento dell’esecuzione.
Il c.d. “passaggio obbligatorio
in carcere” al fine di chiedere,in vinculis, al Tribunale di Sorveglianza la
concessione di uno dei benefici alternativi al carcere costituisce ,al momento,
una delle maggiori ricadute numeriche del reingresso in carcere.
Ragionando proprio sulla
casistica dei c.d. reati di “seconda
fascia” sappiamo che i benefici penitenziari sono fruibili “purchè non vi siano
elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità
organizzata,terroristica o eversiva”. Quindi nessuna prevenzione in negativo invincibile
ed assoluta. Ma solo condizionata all’esito dell’accertamento.
Ebbene, non si comprende allora
per quale motivo tale accertamento non possa effettuarsi, direttamente, durante
il periodo di permanenza agli arresti domiciliari del ristretto che in tale regime si trovi, in attesa della
definitività.
Basterebbe utilizzare lo stesso
periodo temporale per l’acquisizione di documentazione attestante la cessazione
di ogni pericolo di attualità di collegamenti delinquenziali che sarebbero
portati alla conoscenza del Magistrato di Sorveglianza (con garanzia del
contraddittorio) nei trenta giorni di sospensione dell’emissione dell’ordine di
esecuzione da parte del PM.
Una semplice operazione di addenda
legislativa nel corpo del comma 9 lett.a dell’art. 656 C.p.p. renderebbe
possibile evitare il “passaggio in carcere” per un soggetto ormai già avviato alla
risocializzazione (si pensi al caso dei domiciliari “allargati” nei quali l’interessato
svolge proficuamente e con diligenza un’ attività lavorativa) e che ha completamente
interrotto, in modo incontrovertibile, ogni collegamento con la criminalità. Con buona pace dell’art. 27 della Costituzione
che vedrebbe così non oltraggiato il principio di rieducazione della pena.
Se la Signora Ministra ,abbandonando
il terreno della tecnologia, cercasse un
rimedio all’interno del Codice forse si potrebbe fare un buon lavoro. Sicuramente
un …lavoro di Civiltà Giuridica.
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